verso un’evoluzione equilibrata tra modernità e tradizione,in« Economia trentina », Dossier ripensare la montagna N. 2-3, dicembre 2010.

ALÈXIS BÈTEMPS – Primo Direttore dell’Ufficio regionale di Etnologia e linguistica della Regione autonoma Valle d’Aosta;

Presidente del Centro studi francoprovenzali di Saint-Nicolas (AO).

Le montagne le ho sempre considerate una presenza squallida per la loro sterilità, tristi per le loro ombre della sera, deleterie perché nascondono il sole, pericolose per le loro ribellioni inattese alle prepotenze dell’uomo. In fondo per me, come per buona parte dei montanari delle Alpi occidentali, la montagna era l’alpeggio, dove si fermava il domestico e cominciava il selvatico. Quella era la vera montagna e le vette avevano altri nomi, quando li avevano! Tutto ciò che era considerato inutile non meritava un nome. Le vette erano il selvatico, rifugio di diavoli, streghe e anime dannate, sfidate occasionalmente da marginali bracconieri, disertori e contrabbandieri. Erano lo sfondo per lo spettacolo quotidiano, dentro il quale era meglio non tentare di penetrare.

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Pyramides Calcaires e Dora di Veny – Foto di Gian Mario Navillod.

Quegli enormi spuntoni rocciosi che interrompevano brutalmente i pascoli non li avevo mai veramente amati e, comunque, non li avevo mai trovati belli. Cresciuto a Valgrisenche, valle materna, stretta, incassata, dalla morfologia ruvida, aggredita dai torrenti e assediata dalle valanghe, all’epoca ignorata dai turisti, la mia idea di bello era sempre stata un’altra. Sognavo prati umidi, verdi e pianeggianti, torrenti pigri e silenziosi, boschi puliti e ordinati, sentieri ben tracciati, curati e tanta gente, donne, uomini e bambini, con i loro animali, nei prati, nei pascoli e nei campi. Verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso, a metà luglio, ho accompagnato un compagno d’università a scoprire la mia valle, un “milanese”. Cammin facendo, mi sono stupito di sentirlo esclamare “che bello” al cospetto degli orridi che costeggiavano il nostro percorso stradale, dei boschi di pini silvestri, inutili e contorti, delle cascatelle capricciose che attraversavano la strada, non ancora asfaltata, per raggiungere il torrente incassato, violento e chiassoso. “Vedrai più su” gli dissi, pensando ai prati appena falciati che stavano recuperando lentamente il verde; ai campi di cereali che cominciavano a cambiare colore tingendo la valle di chiazze di giallo, colore ormai scomparso dagli stereotipi alpini; ai pascoli montani punteggiati di rosso e di nero, colori del pellame delle nostre vacche di razza valdostana. Tornando al piano, dopo una settimana, l’amico mi disse: “Sì, sì, tutto bello, ma io preferisco l’orrido col torrente…”. Fu un po’ la mia seconda venuta al mondo, il mio primo contatto con un’idea, una visione del paesaggio, ormai già largamente diffusa, ma ancora estranea ai montanari. A quelli di Valgrisenche, almeno. Non ci vorranno molti anni per cambiar loro gli occhi e introdurre, anche a Valgrisenche, nuovi canoni estetici.

In realtà, dunque, quello che amo non sono le montagne.

Ho amato e amo la gente della montagna, che ho sempre avuto difficoltà a chiamare “montanari” trovando il termine riduttivo. Non sono semplicemente dei montanari.

Amo quelli della mia famiglia, i vicini, i valligiani. Certo, lo so, fra di loro, come dappertutto, ci sono i mascalzoni, gli infingardi, i pelandroni e i disonesti. Chiaramente, non sono costoro che amo.

Amo la sintesi della gente “come si deve”, come l’ho percepita, come l’ho interpretata, come l’ho vissuta. In fondo, io amo una particolare idea di gente, di montanaro, di “valdostano”. O forse, qualcuno dirà, amo semplicemente l’idea stereotipa sull’uomo alpino, che però mi domando se è poi veramente così stereotipa.

Ho conosciuto davvero gente tenace che ha imparato a reagire agli attacchi distruttori della natura, che ha saputo ricominciare senza mai lasciarsi prendere dallo scoramento: gente sobria, magari per necessità, sobria nell’alimentazione, nel vestirsi, con poche esigenze. Artigiani col gusto del lavoro ben fatto, finito, curato nei particolari, metodici, poco inclini all’improvvisazione e alle reazioni incontrollate, persone tolleranti verso gli altri, forse perché avevano sperimentato l’intolleranza. Gente che conosceva il mondo, visto dal basso, perché aveva dovuto viaggiare e piegarsi in gioventù per sopravvivere, uomini responsabili, solidali, col senso della comunità, rispettosi del bene altrui e del bene comune.

Ho passato buona parte della mia vita a parlare con loro, a interrogarli, a registrare i loro ricordi, ad ascoltare le loro rivendicazioni, a studiare la loro cultura nel senso più ampio del termine, a paragonarla alle altre, a pormi dei perché. Io sono invecchiato e loro, in buona parte, sono scomparsi.

L’ho fatto per mestiere, è vero, ma – nel mio caso – è stato un mestiere che mi sono letteralmente inventato spinto dalla passione, un lavoro che ho potuto e saputo imporre agli amministratori, agli scettici, che è stato a lungo sottovalutato ma che, finalmente, comincia ad essere ora generalmente apprezzato. L’ho fatto per conoscere gli altri ma, probabilmente, anche per conoscere me stesso. Ho accumulato talmente tanti ricordi, miei e di altri, che ormai li confondo e, talvolta, non so più a chi veramente appartengono, se sono reali o fasulli.

Ora, questo mondo che ho amato, che ho sicuramente idealizzato adattandolo alla mia dimensione psichica, non c’è più o, meglio, più esattamente, ne rimangono solo frammenti e schegge, immersi nell’oceano burrascoso delle novità. Per fortuna, ma è una magra consolazione, esiste almeno un’abbondante letteratura prodotta in questi ultimi anni.

Certo, un po’ di tristezza e nostalgia rimane, in me e in tutti quelli che come me hanno amato la gente. Tuttavia, i sentimenti tristi sono temperati dalla consapevolezza che il cambiamento era necessario, che non si poteva più andare avanti come sempre. Gli stessi ultimi rappresentanti della società agropastorale in declino, i discendenti di coloro che per millenni hanno colonizzato le Alpi con modestia, efficacia e prudenza, riconoscono unanimemente che il ritorno all’antico non è auspicabile e che, in ogni caso, non lo vorrebbero neppure. Sono consapevoli che nel cambiamento hanno perso molte cose ma, anche, che ne hanno guadagnate altre: le comodità in genere, dai trasporti al riscaldamento, la libertà del lavoro interrompibile, la varietà alimentare a tavola, l’assistenza medica, l’allungamento della speranza di vita. Per cui, tutto sommato, nessuno vorrebbe veramente tornare indietro.

Se non per rivivere qualche aspetto particolare della società ancestrale.

Le giovani generazioni hanno, ormai, una conoscenza frammentaria e vaga del passato. In genere, nessuno gliene ha mai parlato. I vecchi se ne vergognavano, gli adulti non avevano il tempo e la scuola lo ha ignorato.

La civiltà montanara è stata funzionale, in Valle d’Aosta, fin verso la metà del XX secolo. Fino ad allora, seppur nel cambiamento, la storia antropica della Vallée si era svolta sul filo della continuità, anche se con frenate e accelerazioni. Da sempre, le generazioni si riconoscevano nella precedente, malgrado i conflitti inevitabili. Ora, invece, il figlio ha difficoltà a capire e a credere ai ricordi del padre: “Ma come? La strada non era asfaltata? Abitavate per sei mesi nella stalla con le mucche? Mangiavate carne solo la domenica? I bambini dovevano lavorare?”.

La data precisa del cambiamento epocale non è definibile, ma credo debba essere posta verso la fine degli anni 60 del Novecento. È il momento del così detto boom. Il rapido miglioramento della condizione economica ha inevitabilmente messo in crisi la società agropastorale tradizionale. Il posto di lavoro facile e fisso, in un primo momento, non escludeva l’agricoltura di sussistenza. Lo sviluppo della rete stradale raggiunge in quel periodo anche i villaggi più isolati. Il decentramento sul territorio di servizi sociali e, in particolare, delle scuole secondarie permette a tutti i giovani di accedere facilmente al diploma, aprendo loro alternative allettanti di promozione sociale. Lo sviluppo del turismo e del commercio, il più delle volte, ha discriminato le popolazioni locali. L’espansione conseguente della città di Aosta, con il suo peso economico e i suoi modelli, si spinge alle porte dei Comuni agricoli vicini e li invade. Lo sviluppo abnorme del settore terziario e altri fattori di importanza minore hanno contribuito all’abbandono della montagna e alla trasformazione delle campagne.

Così, un patrimonio immenso di conoscenze tecniche, materiali e immateriali, di organizzazione sociale, di varietà linguistica, di spiritualità popolare viene accantonato e è sostituito rapidamente, in buona parte, da modelli standardizzati ed estranei. Per la prima volta, nella comunità contadina valdostana, l’evoluzione graduale ha lasciato il posto alla sostituzione culturale.

E tutto ciò con l’approvazione sostanziale delle persone interessate: neppure il più accanito cantor temporis actis(1)LOcuzione latina che tradotta letteralmente, significa lodatore del tempo passato del passato accetterebbe di ritornare alle condizioni di vita di cinquanta anni fa. L’atteggiamento ricettivo non significa che la soddisfazione sia generale, al contrario. L’interesse per i saperi antichi, il recupero della lingua popolare (il patois) non ritrasmessa dai genitori, troppo proiettati verso un avvenire fittizio, la ricerca appassionata delle tracce del passato, sono segnali evidenti di insoddisfazione profonda di chi sta riemergendo dopo una lunga infatuazione. Si assiste al successo di nicchie culturali, ispirate a momenti di vita “pseudoancestrale”, quali la battaglia delle vacche (bataille des reines) organizzata come un campionato di calcio; il carnevale che, da festa interna della comunità, si trasforma in spettacolo per estranei; il canto corale che regolarizza, in senso accademico, il canto tradizionale spontaneo; le innumerevoli sagre alimentari che ripropongono in festa i cibi poveri della quotidianità antica. Si assiste, oramai, alla mitizzazione di valori antichi, veri o pretesi, fino a “stereotipizzarli”. La strada del così detto progresso, imboccata più o meno liberamente negli anni Sessanta, con un po’ troppo entusiasmo e una discreta incoscienza, non sembra più essere quella giusta. La gioventù moderna si trova in una posizione di stallo: il tempo antico non è riproponibile e quello attuale è vissuto come insoddisfacente, ingiusto e alienante. Che fare? Come preparare l’avvenire?

Le ricette per l’avvenire non sono da inventare perché non possono esistere. E chi dice di averle trovate non è una persona affidabile. Ma codesta convinzione non è un motivo per rinunciare ai progetti per un futuro migliore. Si possono, a mio parere, individuare alcuni punti cardine, attorno ai quali creare le condizioni per un rinnovamento delle popolazioni alpine.

Prima di tutto, penso che le Alpi debbano continuare a essere abitate da una popolazione stanziale. Questa non è una mera banalità e non è così cosa scontata come potrebbe sembrare. Le Alpi senza montanari farebbero comodo a molti, a tutti quelli che sognano di trasformarle in palestra e parco giochi delle grandi città, tanto per incominciare.

Le Alpi devono essere abitate da gente che lavora e che vive del proprio lavoro. Le popolazioni alpine dovranno occuparsi di turismo, quello di evasione e quello culturale che andrebbe notevolmente potenziato, e dovranno poter esercitare in loco i vari lavori della modernità. Ma non si può pensare alle Alpi senza l’agricoltura. L’agricoltura dovrà essere moderna e dovrà saper fare tesoro delle esperienze antiche. Dovrà puntare sulla particolarità, sulla novità e sulla qualità. Nuove colture particolarmente adatte potranno essere introdotte in modo oculato. Non bisogna aver paura delle novità. Come si potrebbe immaginare la cucina tradizionale alpina odierna senza patate e polenta, doni preziosi delle Americhe, relativamente recenti?

La nuova agricoltura dovrà permettere ai praticanti di vivere degnamente. Di conseguenza, avrà dei costi perché è impensabile che possa essere concorrenziale. Senza riproporre la retorica del “giardiniere delle Alpi”, ingiusta e irrispettosa, va elaborato un sistema nuovo che assicuri un guadagno equo e dignitoso ai contadini della montagna.

Il patrimonio culturale alpino, materiale e immateriale, accumulato durante i secoli, va raccolto, organizzato e studiato, se non lo si è già fatto. Purtroppo, molto tempo è già stato perso e il ritardo nelle ricerche ha sicuramente comportato la perdita irreparabile di conoscenze. Peccato! Ma, nelle Alpi, abbiamo già sperimentato e superato ben altro!

Il lavoro di raccolta, tuttavia, non va finalizzato a essere poi artificialmente o, peggio ancora, autoritariamente riproposto. Deve diventare un riferimento continuo, una fonte ispiratrice per adattamenti dei modelli esterni, una chiave per la corretta interpretazione del territorio, per le popolazioni autoctone o neoalpine che si voglia. Non si tratta di un ritorno all’antico, piuttosto dell’utilizzo dell’antico per il moderno.

Se le giovani generazioni sono alla ricerca delle loro radici per ritrovare un equilibrio che sentono in pericolo, devono avere a loro disposizione le fonti e i mezzi necessari. Perciò, lingue e culture alpine devono entrare nel curriculum scolastico fin dalla fanciullezza, devono essere accessibili e opportunamente mediate (libri, riviste, video, supporti informatici, centri culturali, ecc.). Il tutto va presentato con il rigore scientifico necessario, senza compiacenza e, soprattutto, senza forzature come quelle frequentemente adottate per andare incontro a un preteso gusto dell’utente medio.

Le popolazioni autoctone rappresentano l’elemento essenziale per il rilancio della conoscenza delle culture locali e la “rivitalizzazione” delle Alpi, ma dovranno dimostrare di saper accogliere genti nuove e diverse per accompagnarle alla scoperta dell’universo alpino. Ed i “neoalpini” debbono avere l’umiltà necessaria per ascoltare, la disponibilità a imparare, per far dimenticare atteggiamenti arroganti e presuntuosi di un passato recente. Devono anche avere la possibilità di proporre i loro punti di vista, frutto del proprio retaggio culturale e della propria intelligenza. Nessuno più deve appiattirsi di fronte all’altro, nella ricerca del benessere comune.

Il patrimonio naturale delle Alpi va salvaguardato globalmente, in tutti i suoi elementi: il selvatico va preservato e il domestico conservato nonché opportunamente valorizzato. Le Alpi racchiudono ricchezze inestimabili per la biodiversità di cui tanto si parla: flora, fauna, minerali, stratificazione geologica, colori, paesaggi naturali, unici e irrepetibili. La popolazione locale deve essere informata e sensibilizzata alle ricchezze del territorio perché è inevitabilmente destinata a collaborare per il loro mantenimento e interessata allo sviluppo del territorio stesso. Ma le Alpi non sono le Montagne Rocciose con i loro spazi sconfinati che, su vaste aree, non hanno mai conosciuto la presenza stabile dell’uomo. Le Alpi rappresentano due millenni di storia dell’uomo, del montanaro, ma anche degli abitanti delle pianure. Se chi le ha abitate le ha plasmate, chi ci è passato – anche per brevi periodi – ha sempre lasciato qualche cosa: un contributo economico, un’idea, una parola nella lingua locale, un toponimo per un particolare del territorio, il seme della sua stirpe. Le popolazioni alpine debbono ora pretendere un turismo più rispettoso e devono, altresì, coltivare una nuova cultura di accoglienza. Il turista non è un padrone onnipotente e non è un portatore di civiltà fra i primitivi, ma non è neppure un pollo da spennare né, necessariamente, uno sciocco che non capisce niente della montagna.

La montagna, come la pianura d’altronde, è di tutti. Però vi sono delle regole ben precise da concordare e da rispettare per viverci. E se la montagna è di tutti, il suo mantenimento è un onere comune, equamente ripartito fra chi ci sta tutto l’anno e chi la elegge come luogo di riposo e di godimento per brevi periodi.

Il futuro delle Alpi non potrà più essere determinato in avvenire da politiche statali o regionali nel senso ristretto del termine. Le Alpi appartengono all’Europa, come d’altronde è sempre stato. Deve finire il tempo nefasto in cui i singoli Stati riflettono e riproducono le loro visioni“nazionali” sulla porzione di Alpi poste sotto la loro sovranità, sprezzanti della storia e delle tradizioni montanare, restie ai confini e alle limitazioni civili. In Savoia, negli anni Settanta, sono state create delle stazioni turistiche in altitudine, dette “stazioni integrali”, costruite sul nulla, finalizzate alla pratica degli sport invernali o, eventualmente, alle passeggiate estive. Nello stesso periodo, in Valle d’Aosta, la scelta innovativa è stata quella delle case monofamigliari, villette sul modello dello chalet svizzero. Il risultato è stato che, al di là degli innegabili benefici economici per una élite, a mezzo secolo dall’innovazione, in Savoia si dice che i villaggi artificiali non hanno mai acquisito “un’anima” e che piacciono sempre meno. In Valle d’Aosta, invece, ci si è finalmente accorti che le villette, oltre che onere per la comunità, sono un susseguirsi monotono di “abitazione/prato inglese/steccato” (nostalgia del modello feudale, allorquando la sequenza era “dimora/piazza d’armi/mura di cinta”?). Ci si è resi conto che gli steccati hanno invaso praterie e boschi a scapito dello spazio aperto e libero, il quale comincia a mancare nonostante i vasti orizzonti che la natura ha proposto. Ora, sia in Savoia che in Valle d’Aosta, il modello abitativo tradizionale era un altro: il villaggio, con le case vicine, addossate, in un luogo sicuro con attorno la natura più o meno addomesticata. L’idea di sviluppare e adattare le scelte antiche sembra non aver neppure sfiorato la mente di chi ha deciso cinquanta anni fa. Le scelte arbitrarie degli anni Sessanta, col tempo, si sono dunque rivelate non confacenti e hanno profondamente segnato il territorio in negativo compromettendone lo sviluppo futuro. Esse sono la testimonianza del fallimento di due modelli culturali, profondamente diversi fra loro, ma entrambi estranei alle Alpi occidentali e che, per di più, contraddicono il passato comune, un millennio di convivenza delle comunità alpine di Savoia e Valle d’Aosta. Mi sembra opportuno, per l’avvenire, che le scelte di sviluppo delle Alpi siano concertate con le popolazioni locali da un organismo decisionale a livello europeo, sfuggendo così agli egoismi e agli orizzonti ristretti degli Stati nazionali. Le Alpi recupererebbero pertanto il ruolo di cerniera dell’Europa, trait d’union fra il Sud e il Nord. A condizione, però, che l’Europa agognata non assomigli troppo agli Stati attuali e che prenda coscienza che non è tutta piatta. La qual cosa non è poi così scontata.

Ho voluto insistere sull’importanza della conoscenza diffusa e della diffusione della conoscenza. Io credo nell’uomo, nella sua intelligenza e nel suo cuore. So che l’uomo che sa è generalmente migliore. E, al di là dei luoghi comuni, abbiamo bisogno di montanari migliori.

Sono sicuro che, quando i montanari conosceranno meglio loro stessi e gli altri, saranno meglio armati per salvaguardare e promuovere la loro terra.

Notes

Notes
1 LOcuzione latina che tradotta letteralmente, significa lodatore del tempo passato